ABBECEDARIO A MODO MIO

ABBECEDARIO A MODO MIO


"IL CONTRARIO DELL'AMORE NON E' L'ODIO, MA L'INDIFFERENZA. IL CONTRARIO DELLA VITA NON E' LA MORTE,MA L'INDIFFERENZA QUALSIASI COSA SCEGLIATE, MIEI GIOVANI AMICI, NON SIATE INDIFFERENTI" E.Wiesel

Sono particolarmente sensibile ai problemi sociali e a quelli delle persone più deboli: faccio del mio meglio perché si affermino i diritti di cittadinanza, di libertà, di eguaglianza, di giustizia, del lavoro, allo studio, a essere curati.
Credo in una società aperta, solidale, protesa al futuro, ma un futuro di equità e fratellanza.
Credo che ciò debba essere raggiunto assieme a tutti gli uomini di buona volontà che non hanno una visione egoistica della vita.
Alla domanda posta dai versi di una canzone "...Dovrei anche rinunciare ad un po' di dignità, farmi umile e accettare che sia questa la realtà?", vorrei che di me si dicesse, parafrasando ancora i versi del medesimo cantautore: "Ha avuto la forza che serve a camminare, ...e comunque la sua parte l'ha potuta garantire".
(Introduzione de "Abbedecedario a modo mio", del sottoscritto, Euzelia edizioni)

lunedì 16 gennaio 2012

FEBBRAIO 2006

martedì, febbraio 28, 2006
 
“Chi sono quelli che soffrono non lo so, non li conosco.
Ma mi appartengono.”
(P.Neruda)





Così sostiene Altan, e così la penso anch'io.
Il tema è: si avvicina il 9 aprile, cosa mi porto in cabina elettorale?
Quattro slogan raccattati sui manifesti per strada? Qualche brandello di programma orecchiato in TV o sui giornali?
Forse questo scadente armamentario può bastare a chi fa coincidere la politica con il voto e il voto con le proprie strette convenienze. Ma non può bastare a chi affida alla politica i compiti che le spettano (stabilire regole e governare gli eventi nell’interesse generale) e che ne denuncia la crisi (sempre più spesso a dettare le condizioni sono interessi economici e finanziari).
Tanto più non può bastare a chi “partecipando” alla politica fa sentire la sua voce ogni giorno – “votando” ogni giorno – per battere le povertà, le disuguaglianze, le oppressioni.
Se avessi voluto al governo l’unto del Signore, sarei nato 2000 anni fa.
Se avessi voluto al governo Napoleone, sarei nato 200 anni fa.
Se avessi voluto al governo un massone, sarei nato 150 anni fa.
Se avessi voluto al governo i fascisti, sarei nato 80 anni fa.
Se avessi voluto tutte queste cose assieme, sarei nato 50 anni fa.
E infatti, direbbe Totò, “lo nacqui”, e abbiamo al governo Berlusconi.
Il fatto è che non lo volevo.
Fortissimamente non lo volevo.
Ha detto Giorgio Gaber: “Non mi fa tanto paura Berlusconi in sé, quanto Berlusconi in me”.
Ecco - anche - perché non lo volevo (e non lo voglio).
Disse il poeta Raboni qualche anno fa: “Credo che sia ingenuo pensare oggi a Berlusconi come a un semplice avversario politico: Berlusconi è l’autore del mondo culturale in cui viviamo”.
Conoscere e denunciare il declino di civiltà che ciò ha comportato non è nostalgia di passato, ma volontà di lotta culturale e politica per cambiare il presente.
Il successo di Berlusconi come uomo politico è l’effetto e non la causa di un degrado civile che lo precede. Ma a sua volta tale degrado è stato alimentato e in buona misura determinato dal “berlusconismo”, e cioè dall’egemonia ideologica che a partire dagli anni ottanta, il settore trainante del potere economico ha esercitato, soprattutto attraverso il controllo delle comunicazioni, sulla mentalità, sul senso comune e sul costume, penetrandolo profondamente in ogni campo della società, nella cultura, nell’editoria, nel sistema educativo.
Il “berlusconismo”.
Ha dichiarato Arthur Miller in una intervista al Corriere della Sera: “…oggi i media trasformano la sofferenza umana in spettacolo disumanizzando tutto e tutti. L’Italia è uno dei paesi in cui questo fenomeno è più accentuato. Da voi esiste inoltre l’aggravante della simbiosi tra potere politico e media. Una simbiosi che rischia di sopprimere ogni tipo di pensiero indipendente… La posta in gioco è la democrazia stessa.”
Del resto una recente ricerca dell’Irre spiega come i bambini del primo ciclo dimostrano di riuscire a comprendere più o meno il senso globale di una frase, ma non ad orientarsi tra le righe; memorizzano e ricordano molto di più gli slogan delle pubblicità e il linguaggio dei media.
Ecco perché lo slogan che appare vincente oggi in Italia sembra essere: “siamo tutti potenziali Berlusconi”; i giovani lo votano perché vogliono essere ricchi e potenti come lui; la gente affida il futuro ai propri sogni, e i propri sogni ad un politico che ha basato il suo successo su quel tipo di “razzismo” che è espressione dell’egoismo e del rifiuto degli altri, sentimenti tipici di un’idea di società basata non più su valori, ma solo sulla ricchezza, sul successo, sul potere, sulla furbizia, sull’individualismo aggressivo.
Il “polo dell’egoismo”, che rappresenta antropologicamente un’altra Italia, che vuole fare, ma da sé, escludendo insieme lo Stato e il senso dello Stato, pur di pagare meno tasse e non avere più regole; un paese vitale, ma privo di baricentro civico, senza identità civile, un paese di individui, ognuno per sé e secondo i suoi comodi.
Berlusconi ha rappresentato questo paese in un blocco sociale, con un populismo telematico che l’ha come eccitato e domato assieme.
E torniamo sempre a Pasolini e al “nuovo potere”.
Berlusconismo come sintesi dell’italiano medio: grazie alle sua televisioni che lo hanno aiutato a fare gli italiani a sua immagine e somiglianza,
In questi paese senza modelli (o in questi tempi senza bussola) è apparso lui.
Anzi Lui, l’unto del Signore: che li ha confessati e perdonati, tramutando i loro sensi di colpa in virtù, che ha parlato non al cervello del popolo italiano ma ai suoi visceri, emozionando e scombussolando i sensi di rivalsa di ciascuno, che ha legittimato quelli che le tasse non le pago tanto..., quelli che mi sono fatto la terrazza abusiva speriamo che non mi becchino..., quelli che assessore mi raccomando…, quelli che prima si vergognavano di dire “sporco negro” e oggi non più…
Il berlusconismo è una fede, alla quale bisogna contrapporre un’altra “fede”: ricordare a tutti – una volta al governo certo, ma già ora – che sognare è bello ma rimanere svegli è meglio, che occorre riportare il paese nel mondo degli adulti, attraverso la riscoperta della sua dignità, della sua giustizia, della sua cultura, della sua storia, della sua libertà, delle sue antiche tradizioni…
Perché se liberarsi di Berslusconi uomo politico è difficile ma forse possibile, liberarsi del berlusconismo sarà molto più lungo e difficile..
(1. continua)
postato da carnesalli | 08:22 | commenti (17)
politica, idee, omelie, democrazia, controcanto

venerdì, febbraio 24, 2006
 
R – Rischi (che si corrono)
Giovanni Raboni è stato uno dei più grandi poeti e uomini di cultura italiani.
Tra il 2002 e il 2004 – anno della sua morte –, indignato per quanto andava capitando nel nostro paese, scrisse alcune “poesie civili”.
Ora esse – assieme ad altre – sono raccolte nel libro “Ultimi versi”.
La raccolta è stata rifiutata da Einaudi (Mondadori) e pubblicata da Garzanti.
                       Canzone dei rischi che si corrono
                                  Un’ossessione? Certo che lo è.
                               Come potrebbe non ossessionarci
                                      la continua reiterazione
                                    degli stereotipi più osceni,
                                 l‘alluvione di falsità e soprusi,
                                    la suprema pornografia
                              dell’astuzia fatta oggetto di culto,
                                della prepotenza fatta valore,
                                della spudoratezza fatta icona?
                              Andiamo a dormire pensandoci,
                          ci svegliamo con questo fiele in bocca
                            e c’è chi ha il coraggio di chiederci
                              d’essere più pacati e costruttivi,
                              d’avere più distacco, più ironia…
                            Sia detto, amici, una volta per tutte:
                               a correre rischi non è soltanto
                                 la credibilità della nazione
                              o l’incerta, dubitabile essenza
                               che chiamiamo democrazia,
                          qui in gioco c’è la storia che ci resta,
                           il poco che manca da qui alla morte.
Recita un bello slogan: occupiamoci del futuro, è là che dobbiamo passare il resto della vita.
Non è paura, la mia (ma credo nemmeno quella di Raboni).
Non è angoscia.
Nemmeno egoistica difesa di qualche vacuo e traballante status quo.
E’ dignità offesa.
E' difesa della "storia che ci resta".
E’ ottimismo della volontà.
E’ speranza, infine.
postato da carnesalli | 13:23 | commenti (8)
poesia, omelie, democrazia, controcanto

martedì, febbraio 21, 2006
 
T – Troppa grazia
 Ringrazio tutti, soprattutto coloro che mi hanno rivolto parole di stima e affetto.
Delle quali – conoscendovi – non dubitavo.
Ma anche quanti sono passati (non so aggiungere meccanismi complicati, ma il numeratore lo so leggere), e non hanno scritto nulla.
Vorrei rispondere a ciascuno di voi, singolarmente.
Qualcuno ha sollevato ancora l’obiezione che mi ha spinto a scrivere il post “Perché questo blog”
Lì è già contenuta una risposta.
Che aggiungere?
Forse le parole che mi piacerebbe fungessero (tra 100 anni, si intende) da mio epitaffio:
“Tre passioni, semplici ma fortissime, hanno governato la mia vita:
il desiderio d’amore,
la ricerca della conoscenza,
e una pena straziante per le sofferenze dell’umanità”
(B.Russel)
Mi vengono in mente le parole che mi ha “dedicato” tempo fa Mirella (ti voglio bene, Mir), mutuandole da Ettore Masina: “In conclusione: mi sarebbe piaciuto essere un uomo pacificato e pacificante, noto per la sua allegria e la gioia dello stare assieme: invece qualcosa non ha funzionato e mi trovo a essere considerato da molti un inquietatore a tempo pieno. Accetto la qualifica purchè si ammetta che anche la speranza è un’inquietudine che ci spinge incessantemente a riprendere il cammino”
Ma questa è solo una parte di me.
Ricordo spesso come aneddoto una frase che uno dei miei figli mi ha rivolto qualche anno fa, guardandomi negli occhi, dopo l’ennesima giullarata: “ma papà, quand’è che diventi grande?”.
Non sono ancora diventato grande.
E’ proprio così.
Questo sono io.
Mi occupo di politica (di sociale), l’ho già detto altre volte, perché è la vita delle persone.
E non mi interessa la politica.
Mi interessano le persone.
Così come odio la matematica (ricambiato, peraltro: siamo proprio incompatibili): ma per esempio mi appassionano le statistiche sulla povertà.
Perché dietro ai numeri c’è la signora Gina e il signor Giuseppe, i loro bisogni e le loro speranze.
E poi in questi due anni – come nella vita del resto – mi sono occupato di mille cose:  dal Grande fratello alla teodicea, dal silenzio all’esistenza di Dio e del senso della vita, dalla poesia alla recensione di romanzi, e poi di giovani e anziani, dell’Africa e della fame nel mondo, della guerra e della pace, di grandi persone e di qualità della vita, di musica e commercio equo…
Difficile trovare un argomento che non abbia affrontato, i più diversi (quindi difficile non ripetersi): ma sempre argomenti che avevano a che fare con l’uomo.
E quindi con me.
Questo è il piccolo bilancio che ho voluto fare.
Per questo è emersa un po’ la stanchezza.
Non ho intenzione di smettere, per tutte le ragioni che ho detto.
Caproni ha ragione:
Ma cos’importa. Sia
come sia, torno
a dirvi, e di cuore, grazie
per l’ottima compagnia…
Ma mi occuperò ancora di politica (cioè di persone).
Almeno fino alle prossime elezioni, perché credo che siano le più importanti del dopoguerra.
Poi vedrò.
Anche perché è un periodo un po’ difficile della mia vita – per motivi di lavoro, di salute e familiari – e questa creatura, che pure amo, mi porta via davvero molto tempo.
Non quanto vorrei (anche perché mi piacerebbe creare una rete nella rete, una catena di blog…), ma al momento troppo.
E sono davvero stanco…
Chiudo queste righe buttate giù di corsa con una frase di un personaggio che non ho mai citato in due anni, Che Guevara.
Prima di partire per la Bolivia, dove avrebbe lasciato la vita nel modo che sappiamo, scrisse ai figli: “… vorrei che sentiste come una ferita sulla vostra pelle ogni ingiustizia che colpisca qualunque uomo”.
Ecco…
P.S.
Non c’entra nulla, ma non posso esimermi da esprimere soddisfazione per la condanna a Irving.
Non sono per le manette, lo lascino pure libero, per carità.
Ma su certi temi non si scherza.
Soprattutto facendo finta di fare sul serio.
postato da carnesalli | 17:56 | commenti (7)
omelie

venerdì, febbraio 17, 2006
 
D – Due candeline
”… Dicevo, ch’era bello stare
insieme. Chiacchierare.
Abbiamo avuto qualche
diverbio, è naturale.
Ci siamo – ed è normale
anche questo – odiati
su più d’un punto, e frenati
soltanto per cortesia.
Ma cos’importa. Sia
come sia, torno
a dirvi, e di cuore, grazie
per l’ottima compagnia…”
(G.Caproni)
Sono esattamente due anni che raccolgo, più o meno “instancabilmente”, i miei pensieri (e i miei astratti furori…) su questa lavagna telematica.
E altrettanto instancabilmente uno zelante bidello (il tempo…) passa e cancella.
E forse questo ci può insegnare qualcosa (per esempio a prenderci meno sul serio….).
Sono stati due anni davvero straordinari, per l’intensità anche emotiva di certi momenti e per la straordinarietà di molte delle persone che ho incontrato.
Per la loro ricchezza, intellettuale e morale; per la loro capacità di ricerca e di impegno; per loro la voglia di mobilitazione; per il loro coraggio di mettersi in gioco; per il loro contagioso entusiasmo.
Per quel filo di complicità che in fondo mi lega a molti di loro, e che rende appassionante condividere riflessioni, notizie, conoscenze, emozioni.
Per quell’incoraggiamento che ti viene dal sapere che molti ti sono vicini, anche nei momenti difficili.
Per le tante cose che ho imparato andandole a trovare, quotidianamente, od ospitandole a “casa mia”.
Per il crescere “assieme”, una cosa bellissima che spesso dimentichiamo, credendola infantile.
Incontri anche fugaci, talvolta, ma arricchenti.
Come talora capita sul treno, o sui sentieri di montagna…
Segno di speranza.
E di gioia.
Mi sono accorto però scorrendo l’indice dei post, di aver “pontificato” su qualsiasi argomento, o quasi…
E per centinaia di pagine…
E siccome per me il blog è uno spazio “pubblico” piuttosto che privato, mi domando quanto riuscirò ad andare avanti, senza correre il rischio di ripetermi o di bruciare troppo tempo ed energie.
Potrei fare come quando si cerca di smettere di fumare (un po’ il blog dà dipendenza, è vero) e provare a diradare un po’.
Per intanto ripesco due vecchi post.
Sul perché del blog.
Sui link.

postato da carnesalli | 08:36 | commenti (11)
omelie

martedì, febbraio 14, 2006
 
F – Forse (tentativo di conclusione)
“Nessun fiocco di neve si sente mai responsabile di una valanga”
(Voltaire)
Forse dovremmo essere un po’ più indocili, non accettare tutto questo.
Forse dovremmo essere meno “conservatori”, che poi significa solo “rassegnati”.
Forse dovremmo cercare di capire il mondo a partire dalla parola “solidarietà”.
Forse dovremmo, dopo averlo capito, provare a cambiarlo a partire dalla parola “giustizia".
Forse dovremmo quest’anno provare a coniugare assieme i verbi (azioni) della solidarietà: esserci, prendere parte, schierarci, solidarizzare, stare insieme, parlare, lottare con…, lottare per…
Forse ci accorgeremmo che così i problemi si allargano.
Forse, allora, quanto sentiamo dire che ci sono 30 mila bambini che muoiono ogni giorno di fame, 28 milioni di ammalati di aids, 4 milioni di vittime della guerra in Congo, che ci sono delle persone che faticano ad arrivare a sera, forse dovremmo/vorremmo sentire dire anche qualcos’altro, assieme a questo: per esempio che le 3 famiglie più ricche del mondo hanno un reddito che messo assieme supera il prodotto interno lordo di 48 paesi africani, pari a 600 milioni di abitanti.
Forse, allora, il problema non è dichiarare illegittima la povertà: troppo facile.
Forse la povertà può diventare il modo con cui noi insieme con austerità affrontiamo i problemi del mondo.
Forse aveva già ragione San Paolo quando affermava “non si tratta infatti di agire in modo che per sollevare gli altri vi riduciate voi all’indigenza, ma di seguire una regola di uguaglianza” (2 Cor. 8,13).
Forse dovremmo dichiarare illegittima questa ricchezza.
Forse dovremmo fare in modo che questa ricchezza non sia più tollerabile.
Forse, cambiare in Africa vuol dire prima cambiare qui.
Forse vuol dire che dovremmo cambiare scelte economiche, sistemi sociali e culturali, ma anche atteggiamenti e scelte personali: lanciare ponti di dialogo, guardare le cose e le persone con sguardo solidale e non indifferente, compiere gesti di responsabilità sociale e compatibilità economica e ecologica.
Forse dovremmo.
Forse.
postato da carnesalli | 08:27 | commenti (7)
politica, idee, omelie

venerdì, febbraio 10, 2006
 
F – Fame (nella società della dieta) / 3
Scriveva qualche settimana fa Pierre Carniti: “Se diamo retta all’interesse dei media per le diete dobbiamo dedurne che quella in cui viviamo è la società della dieta, più che della fame. Per non farsi fuorviare, dovrebbero però essere tenute presenti un paio di avvertenze. La prima: anche nella società dove molti fanno la dieta sono troppi quelli che hanno ancora fame. La seconda: la povertà non fa notizia”.
Tanto meno fa notizia di questi tempi, e non solo per la censura (che pure esiste, eccome) che praticano i media su questi argomenti.
Ma soprattutto perché in una società che esalta la ricchezza, il successo, la notorietà, la fama, la povertà non assume il rilievo di problema politico, ma è ridotta a questione essenzialmente caritatevole (soprattutto ora che vanno di gran moda i “teocon” e il loro “capitalismo compassionevole”).
E perché nella civiltà dello spreco il progresso viene misurato dal prevalere del superfluo sul necessario: infatti, negli ultimi decenni, la causa della pace sociale è stata alimentata dalle grida di angoscia dei privilegiati (i ricchi sentono infatti più profondamente dei poveri le ingiustizie di cui si sentono vittime e la loro capacità di indignazione non conosce limiti)
E di fronte ai tormenti della classe media ( o alta) i poveri finiscono per accettare la loro sorte con più filosofia.”
“E poiché” – sostiene Carniti – “non si possono confortare i tormentati senza tormentare i confortati, la politica ha progressivamente preso atto che fosse più conveniente (almeno dal punto di vista elettorale) confortare i confortati. Questo spiega la povertà delle politiche contro la povertà”.
Non c’è interesse a intervenire, non c’è nemmeno interesse a capire.
La politica – almeno parte di essa – non pare soffrire particolarmente di non disporre di dati attendibili a valutare la dimensione effettiva della povertà estrema.
Eppure – se guardiamo bene, oltre che vedere - cogliamo un malessere progressivo, un disagio crescente.
Basta guardarsi infatti un po’ attorno per rendersi conto che negli ultimi anni l’esercito della povertà estrema ha arruolato un numero rilevante di nuove reclute.
Eppure ci si limita a opporre i volonterosi (ma di loro natura insufficienti) interventi del volontariato, la reazione infastidita (in bilico tra compassione e intolleranza) dei benpensanti, goffi interventi della politica (quando ci sono) che si barcamena tra estemporanee misure assistenziali e conati repressivi.
Per dire: da tre anni non vengono più rilevati i dati. Gli ultimi che sono stati pubblicati sono infatti relativi al 2001 (un premio a chi indovina il perché).
La politica ha deciso di lasciar perdere, raccontando spesso una realtà che non esiste.
E invece – almeno per quanto riguarda la “povertà relativa”, di chi è costretto a vivere con meno della metà del reddito medio pro capite – i dati Istat ci dicono che nel 2004 le persone in quella condizione avevano superato la cifre di 7 milioni e mezzo. Così mentre nel 2003 erano il 10,8% degli italiani, nel 2004 sono invece arrivati al 13,2%.
Le difficoltà colpiscono maggiormente le famiglie con cinque o più componenti: in pratica una famiglia su quattro, in questo segmento, si trova in condizioni di povertà.
Non che le giovani coppie stiano meglio: tra quelle che hanno uno o due figli l’incidenza della povertà relativa in un solo anno è aumentata del 35%.
E’ cresciuto il numero delle famiglie di lavoratori dipendenti che non ce la fa più a tirare la fine del mese, ma ancor di più quello delle persone sole di oltre 65 anni: tra di essi infatti il numero degli indigenti è più che raddoppiato in un solo anno.
Credo insomma che occorra la volontà di fare della lotta contro la povertà e per l’inclusione una priorità politica.
Anche perché i dati citati sono complessivi, come i polli di Trilussa.
Se li andiamo a leggere con attenzione notiamo la “territorializzazione” dei processi di impoverimento in atto: dei 2 milioni e settecentomila famiglie in condizione di povertà – pari a7 milioni e seicentomila persone il 13,2% della popolazione italiana – 1 milioni e ottocentotrentaseimila, pari al 68,7% del totale delle famiglie povere, vive nel mezzogiorno.
Il sud ha un 25% delle proprie famiglie (erano il 21,6% nel 2003, circa 300.000 in meno) che vicono sotto la soglia della povertà (contro un nord che ne ha il 4,7% e un centro che arriva al 7,3%), con punte del 28,5% per la Basilicata e del 29,9% per la Sicilia.
Peggioramenti in tutti i settori avvenuti al sud nel corso del 2004: le famiglie povere con 5 o più componenti passano dal 30,1% al 36,2%, quelle con persone sole ultrassessantacinquenni dal 26,6% al 28,2%, quelle con copie ultrassentacinquenni dall’11,1% al 15,7%, coppie con un figlio dal 15,9% al 21,9%, quelle con tre o più figli dal 28,2% al 33,1%… e via peggiorando…
In sostanza siamo in presenza del ritorno alla disuguaglianza come fatto strutturale.
Le risposte ovviamente starebbero in un cambio radicale della politica economica e dei redditi, nel raccordo tra mezzogiorno e politiche europee, rilancio del welfare, lotta per la legalità, valorizzazione del capitale umano, e via elencando…
E invece?
Nell'anno in corso, a servizi già erogati, lo Stato non darà più alle Regioni, e di conseguenza ai Comuni, metà del fondo sociale promesso. Nella finanziaria in discussione per il 2006 si ripropone lo stesso problema, ma con un decremento ulteriore in tabella di 120 milioni di euro. E' bene essere consapevoli che non si tratta semplicemente di cifre ma di persone e servizi. Il 50% in meno di progetti e servizi verso le famiglie, i minori e gli anziani; Il 25% in meno per i disabili e per l'inclusione sociale; e poi ancora gli interventi per l'integrazione degli immigrati, per la lotta alle tossicodipendenze, il diritto allo studio, le attività culturali e di aggiornamento.... Come se non bastasse il previsto taglio alla spesa corrente degli enti locali del 6% avrà conseguenze ulteriori e pesanti proprio sulle spese sociali.
Ma non è solo questo. L'effetto più grave di questa non-politica, di questa cecità istituzionale sarà un altro: senza coesione sociale e senza una politica coerente di investimento e di sostegno al welfare aumenterà l'incertezza verso il futuro e la sfiducia nelle istituzioni. La politica nel suo complesso perderà ancora di più credibilità. Se il messaggio trasmesso, quello che concretamente arriverà ai cittadini di fronte allo sportello comunale o a quello della Asl, sarà sostanzialmente "mi spiace non possiamo", oppure "si rivolga al privato", credo che inevitabilmente la reazione sarà forte. E non saranno mille euro per i nuovi nati (sia a Mario Rossi che a Totti) ad evitare questo senso di abbandono.
Se la coesione sociale si indebolisce, l'economia ristagna, i conti pubblici sono fuori controllo e la politica non vuole o non è capace di coinvolgere tutti gli attori nel governo dei processi quale futuro ci aspetta?
Spero con tutto il cuore di avere torto, ma Parigi mi sembra sempre più vicina
postato da carnesalli | 08:18 | commenti (2)
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martedì, febbraio 07, 2006
 
B – Bambini poveri e paesi ricchi (2° parte)
”La riduzione della povertà infantile è una misura del progresso verso la coesione sociale, l’uguaglianza di opportunità, e l’investimento nei bambini di oggi e nel mondo di domani”
(Sesto Report Card Innocenti – Unicef)
Da non molto è uscito il Sesto Report Card Innocenti – Unicef di Firenze.
In sintesi.
In cima alla classifica della povertà dei bambini troviamo la Danimarca e la Finlandia, con tasso di povertà infantile inferiori al 3%.
In fondo alla classifica ci sono invece gli Stati Uniti e il Messico, con tassi di povertà infantile di oltre il 20%.
Nell’ultimo periodo di dieci anni la proporzione di bambini poveri è cresciuta in 17 su 24 paesi dell’Ocse. La Norvegia è l’unico paese nel quale la povertà infantile può essere descritta come molto ridotta e in costante diminuzione.
Emerge chiaramente che una maggiore spesa pubblica in favore della famiglia e delle prestazioni sociali è associata a minori tassi di povertà infantile. Quattro dei tredici paesi Ocse hanno registrato un declino delle entrate per il 25% dei “padri meno retribuiti”.
In sette paesi c’è stato un declino delle entrate per il 10% meno retribuito.
In media gli interventi dello Stato riducono del 40% il tasso della povertà infantile che invece verrebbe prodotto dall’azione delle forze di mercato se queste fossero lasciate a se stese.
I governi con i tassi di povertà infantile più alti del mondo riducono la “povertà di mercato” dell’80%.
I governi dei paesi che hanno i tassi di povertà infantile più alti del mondo riducono la “povertà di mercato” solamente dal 10 al 15%.
La differenza tra le politiche adottate dai governi sembra essere responsabile della maggior parte delle differenze nei livelli di povertà infantile tra i paesi dell’Ocse. Nessuno dei paesi Ocse che dedicano il 10% del proprio Pil ai trasferimenti sociali possiede un tasso di povertà infantile superiore al 10%. E nessuno dei paesi che dedicano meno del 5% del Pil ai trasferimenti ha un tasso di povertà infantile inferiore al 15%.
Secondo il rapporto da 40 a 50 milioni di bambini vivono in povertà nei paesi più benestanti del mondo.
In Italia quasi il 17% dei bambini sono considerati poveri, principalmente per la perdita del potere di acquisto degli stipendi e per i trasferimenti sociali verso le famiglie diventati sempre più rari.
Secondo l’Unicef però questa percentuale, a fronte di un chiaro impegno politico, potrebbe realisticamente scendere sotto il 10%.
Chi è il bambino povero, secondo l’Unicef?
E’ un minore che vive in una famiglia il cui reddito è inferiore alla metà del reddito medio nazionale.
L’Italia è – come era facilmente prevedibile – il fanalino di coda d’Europa.
In Gran Bretagna la percentuale è del 15,4%, in Francia del 7,5%.
Le statistiche sociali e l’esperienza quotidiana ci insegnano che coloro che crescono in una condizione di povertà subiscono uno svantaggio notevole e misurabile. Nessuno, credo, penserebbe di attribuirne la colpa agli stessi bambini.
Perciò è indubbio che l’esistenza di alti tassi di povertà infantile rappresentano una chiara contraddizione del principio di uguaglianza di opportunità. Molti dei problemi sociali più difficili da risolvere nelle società economicamente sviluppate possono essere ricondotti in un modo o nell’altro alla povertà, allo svantaggio e alla negazione delle opportunità subiti nei primi anni di vita.
E che spesso si tramandano da una generazione all’altra.
Due brevi riflessioni:
- occorrerebbe credo riflettere sul concetto di sviluppo, che “non è un’idea, un’astrazione, una tabella, ma è fatto di carne e sangue. E’ lo sviluppo concreto di ogni persona, di ogni popolo e dell’intera umanità” (Caritas italiana).
Credo si debba distinguere il “progresso” dal “processo”: il processo storico è niente più che una sequenza di fasi; se parlo di “progresso storico” dò un giudizio di valore sulla sequenza di quelle fasi. In sostanza il concetto di “progresso” non deve essere neutrale, ma implicare una intrinseca attribuzione di valore.
A sua volta “progresso” e “sviluppo” sono nozioni che differiscono in profondità: lo sviluppo esprime qualcosa di più del progresso.
Progredito non vuol dire sviluppato: il concetto di progresso tende a accentuare l’aspetto economico e tecnologico,mentre quello di sviluppo insiste di più sull’aspetto culturale e quindi integrale della comunità umana.
- in questo contesto – anche con riferimento alla globalizzazione e alla forte presenza di extracomunitari tra noi, normalmente i più poveri tra noi – credo andrebbe molto sviluppata l’educazione alla mondialità e alla intercultura, soprattutto nella scuola, segno indubitabile di “sviluppo”.
Viceversa dal 13 maggio 2001 (da quando il centrodestra ha vinto le elezioni) la Commissione ministeriale per l’educazione interculturale, non è stata mai riunita (e ciò anche in presenza di questioni importanti, si pensi solo al crocifisso).
Credo viceversa che si debba assumere l’interculturalità come “nuova normalità”, cioè come sfondo integratore e cornice di inter-connessione di tutto ciò che si fa a scuola (ma non solo, pensiamo alla TV).
In sostanza educazione interculturale come grammatica di civilizzazione per dare vita a una “civiltà del con-vivere” (cioè del vivere con).
postato da carnesalli | 08:35 | commenti (7)
politica, societa, economia - articoli

giovedì, febbraio 02, 2006
 
S – Speriamo che basti…
(1 / 6.000.000 – Seimilioni i bambini uccisi dalla fame ogni anno)
Vorrei per qualche giorno lasciare alle spalle le comparsate in televisione di Bellachioma, la dis-par condicio, gli attacchi a magistrati, cooperative, partiti della sinistra, i giornalisti dalla schiena flessibile, la legge Pecorella, il far west della Lega e la galera di An, il condono sulle mazzette (“siamo stati beccati” confessa Tremonti - sic), Alemanno a giudizio per Parmalat, un paio di sindaci arrestati per tangenti, altri per mafia, il deficit dello Stato alle stelle (dovuto “al temporaneo venir meno di consistenti incassi derivanti dal gioco del lotto realizzati nel mese di gennaio 2005, derivanti dall’attesa del numero 53”: sempre Tremonti – doppio sic), i neonazisti al prossimo Parlamento.
E infine - ultimo, ma non ultimo - le lettere di propaganda inviate a ignari quanto “inesistenti” neonati  (gli immigrati - si badi bene - non europei, si sa, sono fantasmi).
La loro prima (ma certo non ultima) delusione.
E si potrebbe continuare…
Ma mi pare che basti.
Speriamo che basti…

Mi piace (!) a inizio anno, parlare ancora un po’ di sud (ma anche del nord) del mondo e di bambini.
Di bambini e povertà.
Di povertà.
L'annuale rapporto sullo "Stato di insicurezza alimentare nel mondo" della Fao (presentato di recente, ma dai media affrontato di norma in modo superficiale e affrettato) è una volta di più un pugno in faccia all'indifferenza dei paesi ricchi. Che non rispettano gli impegni presi e sono lontani dal realizzare gli obiettivi del millennio.
Ogni anno circa sei milioni di bambini muoiono per fame e denutrizione, praticamente l'intera popolazione prescolare di un paese grande come il Giappone. L'organizzazione per l'alimentazione e l'agricoltura dell'Onu fotografa una situazione tragica, in cui le cause di mortalità infantile restano malattie curabili come la dissenteria, la polmonite e la malaria. Oggi nel mondo sono 852 i milioni di persone che soffrono di fame, di cui 815 nei paesi sottosviluppati, 28 in quelli in transizione e 9 nei Paesi industrializzati.
Se fame e malnutrizione sono le cause della povertà, dell'analfabetismo e degli alti tassi di mortalità, il rapporto dell'agenzia Onu si sofferma sulla necessità di mettere in pratica le politiche di aiuto utili per combattere la fame nel mondo, obiettivo del World Food Summit (Wfs) del 1996 e uno degli obiettivi del millennio (Mdg), da realizzare nel 2015.
"I progressi per dimezzare il numero di persone che soffrono di fame nei Paesi in via di sviluppo - scrive nelle conclusioni del rapporto il direttore della Fao, Jacques Diouf, appena rieletto alla guida dell'agenzia - sono molto lenti e la comunità internazionale è ancora lontana dal raggiungere gli obiettivi e gli impegni assunti al Wfs e Mdg".
Il 75% delle persone che soffrono la fame vivono in zone rurali nei Paesi più poveri, soprattutto in Africa. Qui vive la maggior parte dei circa 11 milioni di bambini che non superano i cinque anni, delle 530mila donne che muoiono durante la gravidanza ed il parto e dei 300 milioni di persone che muoiono di malaria.
Quasi tutti "vivono nelle zone rurali", ha sottolineato Diouf, ma ciò nonostante, "negli ultimi 20 anni le risorse all'agricoltura sono diminuite del 50% - ha proseguito il direttore della Fao - anche se, qualche segnale di inversione si intravede, come dimostra la decisione dell'Unione Africana di aumentare la percentuale di budget nazionali destinata allo sviluppo rurale e al settore agricolo del 10% in cinque anni".
"La riduzione della fame", ha scritto Diouf, "dovrebbe diventare la forza trainante e il motore del progresso e della speranza, perché una migliore alimentazione è alla base di migliori condizioni di salute, fa aumentare la frequenza scolastica, riduce la mortalità infantile e materna, dà la possibilità alle donne di avere maggiori strumenti, abbassa l'incidenza e i tassi di mortalità da HIV-AIDS, da malaria e da tubercolosi".
La Fao propone una strategia su due fronti. Da un lato, investimenti a livello nazionale e internazionale per rafforzare la produttività e i redditi, tra cui la costruzione di infrastrutture e la promozione della pesca e del settore agricolo; dall'altro, il sostegno alimentare e sociale attraverso reti di sicurezza per i poveri, programmi di alimentazione per le madri e i neonati (magari evitando il cibo per cani).
Eppure poco ne hanno parlato giornali e televisione.
Forse perché la coscienza proprio pulita non l’abbiamo: al quadro delineato dal Direttore della Fao vanno aggiunti infatti, per quanto ci riguarda, i dati ancor più desolanti che leggiamo sulle statistiche di casa nostra. L’Italia era, con un miserrimo 0,17% del Pil che la collocava ben ultima nella classifica dei Paesi industrializzati, lontanissima dall’impegno preso solennemente dai ricchi della terra di dedicare agli aiuti allo sviluppo almeno lo 0,70% del loro prodotto interno lordo. Ora, con i nuovi tagli decretati dal governo, l’esborso italiano si è ridotto ulteriormente e dovremmo essere a non più dello 0,12%.
È una cifra per la quale dovremmo provare vergogna. Un grave peccato di omissione contro le leggi della giustizia e della solidarietà. Ma anche un segnale di imprevidenza, di non comprensione di una realtà che pure è sotto gli occhi di tutti, anche di chi non è abituato a porsi problemi sotto il profilo della morale: il pianeta non può continuare a vivere portandosi dentro una simile ingiustizia.
Se il divario tra ricchi e poveri continuerà a crescere, come sta facendo, il futuro sarà nero per tutti. Anche per quelli i quali ritengono che la morte di sei milioni di bambini non sia affare loro.
postato da carnesalli | 14:24 | commenti (7)
politica, mondialita, villaggioglobale

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