ABBECEDARIO A MODO MIO

ABBECEDARIO A MODO MIO


"IL CONTRARIO DELL'AMORE NON E' L'ODIO, MA L'INDIFFERENZA. IL CONTRARIO DELLA VITA NON E' LA MORTE,MA L'INDIFFERENZA QUALSIASI COSA SCEGLIATE, MIEI GIOVANI AMICI, NON SIATE INDIFFERENTI" E.Wiesel

Sono particolarmente sensibile ai problemi sociali e a quelli delle persone più deboli: faccio del mio meglio perché si affermino i diritti di cittadinanza, di libertà, di eguaglianza, di giustizia, del lavoro, allo studio, a essere curati.
Credo in una società aperta, solidale, protesa al futuro, ma un futuro di equità e fratellanza.
Credo che ciò debba essere raggiunto assieme a tutti gli uomini di buona volontà che non hanno una visione egoistica della vita.
Alla domanda posta dai versi di una canzone "...Dovrei anche rinunciare ad un po' di dignità, farmi umile e accettare che sia questa la realtà?", vorrei che di me si dicesse, parafrasando ancora i versi del medesimo cantautore: "Ha avuto la forza che serve a camminare, ...e comunque la sua parte l'ha potuta garantire".
(Introduzione de "Abbedecedario a modo mio", del sottoscritto, Euzelia edizioni)

venerdì 13 gennaio 2012

APRILE 2005

venerdì, aprile 29, 2005  

S – Storace ministro, ovvero … Dio ci conservi la salute
La sanità ai tempi della destra

Per capire cosa farà S.E. On. Min. Francesco Storace, possiamo dare un’occhiata a quello che ha fatto quale Presidente della Regione Lazio.
Intanto: il 75 per cento del deficit nazionale della sanità viene attribuito al Lazio assieme al Piemonte di Ghigo e alla Sicilia di Cuffaro.
Non è un’opinione mia: lo sostiene la relazione della Corte dei conti sul 2003.
In compenso, nel 2004, il Lazio, le Regioni suddette, più la Puglia di Fitto e la Calabria di Chiaravallotti, si sono rese responsabili del 99,8 per cento dello sfondamento della spesa farmaceutica.
Deficit alle stelle, nonostante quei ticket che Emilia-Romagna e altre Regioni non hanno voluto applicare. La Regione Lazio (dice sempre la Corte dei conti) è balzata ad una cifra doppia per abitante rispetto al malandato Piemonte e alla depressa Campania. Il governo «amico» di Silvio Berlusconi le è andato in aiuto portando, generosamente, da 7 a 9,2 miliardi il contributo per la copertura del disavanzo. Parallelamente il Comune di Roma si è visto tagliare i fondi per Roma Capitale, che in parte lo ripagavano dei trasferimenti erariali decisamente bassi.

Altro punto dolente: i rapporti coi potenti della sanità privata.
Il Lazio ha tagliato e riconvertito molti posti-letto pubblici. Solo che la contemporanea apertura di posti in residenze assistenziali è avvenuta per lo più in strutture private. Già nel 2002 i letti privati raggiungevano nel Lazio la vetta di 2,4 ogni mille abitanti, oltre il doppio della media italiana. Qui e in Lombardia si registra del resto la più alta percentuale di case di cura private «accreditate», con rendite fiorenti. Il 18 febbraio scorso il Consiglio regionale del Lazio, ormai a fine mandato, ha appaltato all’esterno i servizi di riabilitazione intensiva, di rsa e di hospice per il Policlinico di Tor Vergata, precisamente al Centro romano di San Michele, casa di cura privata «accreditata» in gran fretta il giorno prima. Di essa risulta proprietaria una ottuagenaria, probabilmente una prestanome. Infine, è proprio un caso se il Lazio ha un tasso pesantissimo di parti cesarei (assai limitati invece in Europa e nel Nord Italia), col 40 per cento del totale contro il già elevato 32 della media nazionale? È un caso se nelle cliniche private romane si balza al 68,6 per cento (80 per cento in una certa casa di cura)? Tutti casi «estremi»? No, è solo che il parto cesareo «rende» di più di quello naturale, a chi lo pratica.

Poi: secondo la Corte dei conti, i costi di ricovero «costano in media di più nel Lazio, mentre sotto media è la Toscana». Nella prima regione il costo per ricovero ospedaliero ha sfondato la soglia dei 5.500 euro contro una media nazionale di soli 3.062. Prima dell’avvento del centrodestra, si pagavano tariffe differenziate, cioè il 100 per cento per le prestazioni più complesse e specialistiche (in genere pubbliche) e di meno per quelle più generiche (in genere private). Col centrodestra, tutte le tariffe sono state uniformate, prima al 100, poi al 90 per cento. Risultato? In un anno il costo dei soli ricoveri per acuti in strutture convenzionate è il lievitato di 80 milioni di euro.

Ancora: Storace ha messo al posto di comando della strategica Agenzia Regionale della Sanità l’ex deputato di An, Domenico Gramazio, uomo d’azione assai più che di pensiero (meglio noto col nome d’arte de “er pinguino”), senza alcuna identificabile esperienza in materia (ora lo porterà con sé al Ministero?).
Tutto ciò mentre i costi rincaravano, le liste d’attesa si mantenevano sfibranti nei luoghi pubblici di cura; mentre cresceva il marasma gestionale, anche grazie alla impostazione di «manager» di partito alla Gramazio. Del resto, la stessa Corte dei conti ci racconta che dal 2001 al 2002 Francesco Storace ha moltiplicato i dirigenti della Regione Lazio del 176,2 per cento, portandoli dalla cifra normale di 181 a quella stratosferica di 500. Un «miracolo» meritocratico: la Lombardia ne ha soltanto 312. Emilia Romagna e Toscana poco più di 200. Costi complessivi e costi individuali hanno preso letteralmente fuoco.
Dunque, nonostante gli iniqui ticket, costi e deficit regionali sono andati alle stelle.
Ma niente paura.
Ci ha pensato il neo ministro Storace cartolarizzando e vendendo gli immobili ospedalieri. Naturalmente riaffittati con canoni che peseranno sui contribuenti, per anni e anni.

Domanda: era o no l’uomo giusto al posto giusto?

(dati tratti da un articolo di Vittorio Emiliani)

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postato da carnesalli | 13:54 | commenti (8)
politica, economia - articoli


martedì, aprile 26, 2005
 

O – Ombrello (attenzione allo…): di Sir Bis, di natiche e altro ancora.

“Per la parte preponderante della loro anima
gli uomini non sono che marionette
e prendono ben piccola parte
alla vera essenza delle cose”
(Platone)


Chi ha visto (e ascoltato) quello splendore di film che è “Fantasia” di Disney, ricorderà certamente la celeberrima figura di Topolino – apprendista stregone.
E’ l’immagine che mi è venuta in mente assistendo al mortificante spettacolo reclamizzato con toni trionfalistici dal Tgu come “Berlusconi bis”.

Dopo anni nei quali “magicamente” il capo del governo aveva tenuto in riga – con qualche difficoltà – ramazze, stoviglie e bicchieri al solo fine di usarli in qualità di sguatteri al suo servizio (e anche qui, malgrado tanti proclami sulle sorti magnifiche e progressive della maggioranza, tenendo conto che è stato sostituito un membro del governo, ministro o sottosegretario, ogni trentadue giorni; nessun governo prima d’ora aveva cambiato ministro degli esteri, dell’economia e dell’interno), alla fine si sono ribellati.

Non tanto per dignità, concetto che anche dagli ultimi avvenimenti, pare sconosciuto in certi ambienti, quanto per mediocrità del mago.
Il quale alla fine, come nel film, è riuscito a mettere assieme i cocci, apparecchiando la nuova tavola con un po’ di avanzi e qualche stoviglia dimenticata in dispensa, ma facendo passare – altra magia – questo Calderoli/Tremonti bis (a bordo del quale sono saliti anche Storace e La Malfa oltre ad altre figure di seconda fila e qualche riciclato sempre pronto alla bisogna) per il governo della “discontinuità e del rilancio” (a meno di cento giorni effettivi dalla fine della legislatura….)
Ma siccome le cose non avvengono mai per caso e anche le coincidenze hanno un senso, nello stesso giorno del giuramento del Governo sulla Costituzione (quale?) si è aperto a Torino il congresso internazionale dei prestigiditatori: dilettanti in confronto…

Berlusconi bis…bis... e mi sovviene quell’altro film di Disney, “Robin Hood”, nel quale protagonista non secondario era Sir Bis, il serpente incantatore e infingardo…

Sarà comunque difficile per Sir bis, malgrado gli sforzi comunicativi, liberarsi dal marchio del governicchio elettorale, di un governo carta carbone del precedente (con in più, ha detto qualcuno, qualche refuso: Storace alla sanità! Tiramisù Miccicchè al ministero dello sviluppo e della coesione territoriale, che è una stronzata, ma geniale!), destinato a morire di lotte intestine.
Si consumerà il riequilibrio del cosiddetto asse del nord che in Tremonti (l’unico ministro col buco intorno) ha avuto il suo massimo esegeta, nella rivalità con Fini e Follini che chiedevano esattamente il contrario. Senza parlare di Calderoli alle riforme (lasciamo perdere Buttiglione: quello dove lo metti…)

Ad occhio sembra di assistere al colpo di coda del berlusconismo: duro a morire, ma in evidente agonia.


Continuità nella discontinuità, dicono.

Quest’ultima non la vedo, sinceramente, anzi.

La prima invece sì: chiaramente raffigurata dal gesto dell’ombrello del sommo Altan.



Ragazzi, c’è ancora molto da fare, ancora uno sforzo: rimbocchiamoci le natiche…
Ops, scusate, le maniche…

Oggi sono un pò depresso e voglio mettermi "allegria"












postato da carnesalli | 12:11 | commenti (11)


giovedì, aprile 21, 2005
 

A un amico molto giovane (R.Roversi)
uno prendeva il fucile, saliva sulla montagna
la montagna era lì che aspettava, e non aveva pietà
un altro prendeva il fucile, andava per la pianura
anche la pianura aspettava, e non aveva pietà
nelle città era fuoco, terribile rosso il tramonto
e il fuoco bruciava le case, e non aveva pietà
giovani cadevano morti,  fra l’erba senza colore
pendevano morti dai rami spezzati, come
poveri cani
i mesi gli anni passavano, i giorni non davano tregua
un mitra stretto nel pugno, pianura montagna città

poi è arrivato un aprile, sangue di sole e di rose
come un vulcano che esplode, ha gridato libertà.

25 aprile 1945
25 aprile 2005

 Per questo è particolarmente importante oggi fare memoria. 
Ricordare la Resistenza , sia quella combattente che quella civile, che se ha avuto, pur essendo di breve durata, un così forte impatto in tutta Europa nei decenni successivi, è dipeso prima di tutto dalla sua scelta politica di fondo: di aver contrapposto al nazifascismo la democrazia, la libertà individuale e i diritti sociali.
La Resistenza (insieme all’antifascismo che ne è stato la premessa) è diventata il paradigma della Repubblica – il carattere fondativo della Repubblica - soprattutto per il suo straordinario potenziale creativo di democrazia, perché rappresentava il risveglio da una sonnolenza popolare di lunga durata: i partigiani erano 230.000, una somma di storie individuali che diventavano scelte di campo che decidevano della propria vita. E assieme alla resistenza armata c’era la Resistenza civile attiva.
Fascismo come antidemocrazia e democrazia come antifascismo .
Lungo sarebbe il discorso: qui basti dire che il fascismo non fu – come qualcuno sostenne – inveramento, ma rovesciamento del liberalismo: fu totalitarismo, controrivoluzione, reazione di classe contro i processi storici di emancipazione delle masse popolari e di allargamento della partecipazione politica, negazione del principio di libertà individuale e di quello di eguaglianza sociale: ovvero il fascismo fu la negazione dei fondamenti stessi della democrazia.
E questo giudizio sulla negatività del fascismo come antidemocrazia sta a fondamento della concezione della democrazia come antifascismo inscritta nel corredo genetico della nostra Costituzione repubblicana, non a caso presa d’assalto da questa destra.
Dice ancora Bobbio “come da questo coacervo di forze sia venuto fuori un testo unitario, approvato…quasi all’unanimità…sarebbe difficile spiegare, se non ci si rendesse conto  che essi avevano in comune almeno un’idea, non soltanto negativa, l’antifascismo, ma positiva. Questa idea comune era la democrazia…l’idea comune delle forze antifasciste in quanto tali non poteva essere che la democrazia in quanto antidemocratico era stato il fascismo”
In comune c’era un’idea, la democrazia, intesa come un insieme di principi, regole, istituti che permettono la più ampia partecipazione dei cittadini alla cosa pubblica e quindi il più ampio controllo dei poteri dello stato. Se di una ideologia della resistenza si può parlare questa era la democrazia,m nella più ampia accezione del termine, in quanto antidemocratico, nel senso più ampio della parola, era stato il fascismo. Contro il principio dell’uguaglianza il fascismo aveva esaltato la gerarchia, contro il potere dal basso, il potere dall’alto, contro la libertà, l’autorità, contro lo spirito critico la fede cieca, contro il principio di responsabilità, il conformismo di massa.
Per questo certo revisionismo storico punta al rifiuto dell’antifascismo in nome dell’anticomunismo, cosa che ha finito spesso per condurre ad un’altra forma di equidistanza, che considero abominevole: tra fascismo e antifascismo.
Certamente su questo non ci può essere riconciliazione.
E’ dipeso anche dal fatto che per potersi contrapporre alla costruzione in corso di un’Europa tedesca si doveva passare attraverso un forte recupero dell’identità nazionale (per questo la lotta era estesa anche contro coloro che non erano tedeschi ma apparteneva a una comunità nazionale che avevano abbandonato o tradito).
Soprattutto dopo l’8 settembre lo sfacelo della “nazione” era reale: da esso poteva nascere l’abbandono o poteva nascere (e nacque) il proposito di ricostruire l’identità nazionale perduta.
Su questo punto la nuova Italia si incontrava con l’antifascismo storico, quello dell’esilio, delle carceri, del confino di polizia. Era l’idea di una Italia diversa, di una nazione che non schiacciava l’individuo ma traeva vigore da esso, che viveva la differenza con le altre nazioni non come loro negazione ma come cooperazione.
L’antifascismo divenne così un punto di riferimento obbligato della nuova esperienza politica.
Per questo appaiono indecenti certe assimilazioni, anche recenti, tra l’esperienza della resistenza e  del paese, e la Repubblica di Salò.
Si può rispettare la scelta sincera di chi aderì a quella repubblica, ma resta difficile vedere in quell’esperienza altro che uno strumento di coscrizione e di arruolamento forzato a favore dei tedeschi. Quando si parla di quel periodo come di una guerra civile (ed è giusto perché fu anche una resa dei conti armata tra italiani), non si può pensare ad una equiparazione dei due campi.
Da un lato la Resistenza , costruita da partiti diversi tra loro ma uniti da un obbiettivo comune, l’idea di una nazione aperta al mondo e rispettosa degli individui e delle loro aggregazioni sociali, civili, religiose.
Dall’altra il partito unico, una feroce persecuzione razzista, l’esaltazione di una cultura di morte.

 
 Ecco allora l’antitesi irriducibile tra fascismo e antifascismo, la reciproca determinazione della natura del fascismo come antidemocrazia e della democrazia come antifascismo: opposizione logica e assiologica, e storica.
“E’ mai possibile – si chiede Bobbio – in una storia etico politica non fare alcuna differenza tra coloro che avevano scelto la lotta per la liberazione del paese, coloro che avevano scelto di perpetuare il dominio di Hitler, e coloro i cui fine principale era quello della sopravvivenza?”

Ricorda in una pagina del suo diario Calamandrei “…questa tenerezza è la patria. Ci siamo ritrovati. Siamo uomini anche noi. Una delle colpe più gravi del fascismo è stata questa: uccidere il senso della patria…Si è avuta la sensazione di essere occupati da stranieri: questi italiani fascisti, che accampavano il nostro suolo, erano in realtà stranieri. Se erano italiani loro, noi non eravamo italiani”

Per questo il 25 aprile 1945 fu veramente la primavera d’Italia, un’ondata irresistibile di gioia. Giorno di liberazione, libertà e pace.

Mai come ora c’è bisogno di un richiamo forte alle radici democratiche dell’Italia del dopoguerra.
Resistere è parola attuale che significa saper garantire e difendere nuovi diritti e nuove frontiere di civiltà.

Significa continuare a ricordare:


Il tuo compagno se ne va.
Se ne va dopo aver amato libertà, giustizia.
Se ne va dopo aver amato te, tanto.
Ma tu devi vivere…
Ti sarò comunque vicino, lo so e lo sento,
Vicino a te e a tutte le persone care.
Muoio in piedi.
Sappilo, e ricordami così.
Ti amo tanto
Paolo”
(Paolo Vasario, medico partigiano, fucilato dai tedeschi a 33 anni il 22 luglio 1944)

 Non lasciamo appassire mai questi ricordi, come tristemente appassiscono quelle corone ormai stinte e quelle lapidi scolorite accanto ai portoni.
Come ricordava già G.Arpino nel 1954

Torino fredda
Fermarono i contadini in piazza perché vedessero.Era giorno di mercato, i paesani venuti da fuoriStavano intorno ai vitelli legato con corde.Nessuna finestra aperta nei grandi palazzi attorno,In dodici caricarono lunghi fuciliE uno solo dei due legati sulle sedieRiuscì a voltare un poco la testa, cercando ancora il mondo.Adesso c’è la lapide e ventisette buchi nel muroE un portafiori di latta arrugginito che pendeE qualcuno che di notte passa e s ferma un poco a guardareI nomi scoloriti incisi nel marmo.
 Il 25 aprile, sia la primavera della memoria.
 
Quel portafiori di latta arrugginito sia sempre pieno di fiori freschi. Perché grazie a loro siamo semplicemente liberi.

 Per saperne un po’ di più:
V.Foa, Questo novecento, Einaudi
N.Bobbio, Dal fascismo alla democrazia, Baldini e Castoldi

Qualche romanzo:

E.Vittorini, Uomini e no
I.Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno
V.Viganò, L’Agnese va a morire
C.Pavese, La casa in collina
C.Cassola, La ragazza di Bube
N.Revelli, La guerra dei poveri e Il mondo dei vinti

 Consigliamo il più grande di tutti: B.Fenoglio
                                                                                               
                                                                                           
Per chi vuole approfondire:

 ANPI

 Resistenza italiana 

 ANPI Roma



(trovate questo post anche su cercandolibertà)

 Le parole di un testimone:“Si è antifascisti quando si rispetta l’altro, quando se ne riconosce la legittimità nell’atto stesso di contrastarlo e d combatterlo, quando non si pretende di distruggerlo e nemmeno di assimilarlo, cioè di ridurre il suo pensiero, la sua identità al nostro pensiero, alla nostra identità.L’antifascismo è ansia di intervenire contro l’ingiustizia, piccola o grande che sia, di intervenire contro ogni minaccia di libertà; è pluralismo politico e sociale, cioè legittimazione delle differenze; è la democrazia come partecipazione e non solo come garanzia;è il rifiuto di ogni delega globale”(V.Foa)
Ai fratelli Cervi, alla loro Italia. ….Ma io scrivo ancora parole d’amore, e anche questa terra è una lettera d’amorealla mia terra. Scrivo ai fratelli Cervi, non alle sette stelle dell’orsa: ai setteemiliani dei campi. Avevano nel cuore pochi libri,morirono tirando dadi d’amore nel silenzio.Non sapevano soldati, filosofi, poeti, di questo umanesimo di razza contadina.L’amore, la morte, in una fossa di nebbia appena fonda.Ogni terra vorrebbe i vostri nomi di forza, di pudore,non per memoria, ma per i giorni che striscianotardi di storia, rapidi di macchie di sangue(S.Quasimodo)
  “Diana cara, la vita che doveva cominciare è terminata per me anzitempo.
Ma durerà nel ricordo. Ti amo Diana.

Per questo dobbiamo dire grazie.
 L’eredità antifascista della Resistenza – le radici della nostra libertà – è oggetto di ripetuti attacchi.
 Sessant’anni.
L’obbligo del ricordo.


 Un sottile revisionismo si è insidiosamente infiltrato nel tessuto sociale; la lotta che si sta verificando a livello mediatico per il dominio della memoria è sotto gli occhi di tutti.
Mai come ora sembra esserci bisogno di un richiamo forte alle radici democratiche e dunque resistenziali dell’Italia.

Il Paese sta vivendo una rimozione collettiva del senso del proprio passato
fascista e di un dopoguerra in cui il portato ideologico di destra non si è mai estinto.
I testimoni diretti delle guerre e delle tragedie del novecento stanno scomparendo o sono troppo vecchi e stanchi per incidere veramente sul senso comune di una società che non ha alcuna intenzione di ascoltarli.

 In Italia i loro figli hanno dimenticato cosa vogliono dire il fascismo, la deportazione, la guerra, i campi di sterminio, la fame e i loro nipoti sembrano non immaginarlo neppure.

Che la memoria fondi l’identità è un dato ormai assodato: la condivisione di una cultura rappresenta la struttura connettiva di una società.

Siamo quello che ricordiamo, come singoli e come collettività; per guardare al domani, nell’oggi, bisogna trovare lo ieri nel ricordo.

Quando nel presente si ha la mancanza di quadri di riferimento al passato si ha l’oblio di un dato culturale che coincide con mutamenti di senso che avvengono in modo strisciante e inavvertito.

Si ha così la proliferazione di tradizioni “inventate”, caratterizzate da un alto livello di simulazione per la costruzione “a tavolino” di determinati modelli antropologici, sociali, statuali.Tutto ciò appare evidente nel revisionismo storico, espressione ideologica della destra, funzionale a un uso della storia volto a legittimare aspetti del presente mediante il riferimento a un passato dalle caratteristiche fondazionali.La memoria pubblica è da sempre strumento nelle mani delle classi dirigenti per il consolidamento del consenso e per la propria autolegittimazione.Essere al governo, disporre di intellettuali e operatori culturali conniventi, possedere il monopolio televisivo ed editoriale da questo punto di vista rappresenta certo un vantaggio per riscrivere il passato, controllare il presente e determinare il futuro.



 Semplicemente liberi
postato da carnesalli | 14:05 | commenti (13)
memoria


mercoledì, aprile 20, 2005
 

P - Papa
L prime parole di Karol Wojtyla da papa furono: "non abbiate paura!".
Ho l'impressione che Joseph Ratzinger sia l'espressione di una chiesa impaurita.

Spero di sbagliarmi...

postato da carnesalli | 08:28 | commenti (10)
pruriti


lunedì, aprile 18, 2005
 

P - Parole…parole…parole…
Tempo che per mettere assieme i cocci di questo governo e della sua politica ricomincerà il ritornello “abbiamo rispettato i patti” (Ballarò non ha insegnato niente).

Quando comincerà il tormentone teniamoci pronti.
Ricordiamo tutti la sceneggiata televisiva di Berlusconi che firma alla presenza del suo notaio di fiducia, Vespa, il famoso “contratto con gli italiani”.
Aveva detto, nel 2001: se non realizzo 4 su 5 punti del contratto con gli italiani mi ritiro dal voto
E sull’onda della firma apposta su quella scrivania di ciliegio, la sua armata brancaleone ha vinto le elezioni.
Lui ora torna dal suo notaio e in tv dice: ho fatto tutto, sono costretto a ricandidarmi.
Su cinque solenni promesse, pronunciate da quell’«altare catodico» dell’era berlusconiana che è il salotto di Bruno Vespa, finora soltanto una è stata mantenuta. E siamo a un anno dalle prossime politiche.
Questo il «verdetto» sulla realizzazione del contratto con gli italiani emesso da Luca Ricolfi nel suo ultimo libro, «Dossier Italia - a che punto è il contratto con gli italiani» edito dal Mulino.
Il capitolo centrale, dedicato ai cinque impegni presi dal premier nel pieno dell’ultima campagna elettorale, «salva» solo la «voce» sulle pensioni minime da alzare a 516 milioni. Almeno «formalmente», secondo Ricolfi, quell’operazione è stata fatta, anche se con tali e tante clausole che a beneficiarne sono in pochi. Per il resto, gli obiettivi appaiono lontanissimi.
Una sentenza che dovrebbe indurre il premier a un’unica conclusione: non ricandidarsi. Questo l’impegno che Silvio Berlusconi aveva preso davanti alla folla dei «fedeli» telespettatori. Ma nella giostra mediatica che rilancia tutto in un tourbillon di slogan, i vincoli si allentano inesorabilmente.
Ci prova Ricolfi, professore di metodologia della ricerca psicosociale all’Università di Torino, a «misurare» con una precisione numerica lo «stato di avanzamento dei lavori» del patto berlusconiano, nel tentativo «di porre almeno le basi - si legge nel volume - per un ragionevole accordo sui fatti».
Perché, risultati a parte, una cosa è certa: da una parte la destra racconta di una Penisola felice, più ricca, più ottimista, e la sinistra disegna un Paese allo sbando, in declino, sempre più impoverito.
Di qui l’esigenza di costruire, con percentuali e analisi, quei cinque pilastri su cui fondare un grado accettabile di oggettività condivisa. E a guardar bene quei cinque punti rappresentano tutti (per la verità anche quello sulle pensioni minime) una disfatta per l’esecutivo di centro-destra e una disillusione per il Paese.
Le tasse. È la promessa più amata da Berlusconi. In Tv il premier si è impegnato ad estendere l’area di esenzione totale (no tax area) a 11.400 euro annui, obiettivo quasi raggiunto ma solo con le nuove deduzioni per i carichi familiari. Non per tutti, dunque. Quanto alle due aliquote Ire (23% fino a 103.300 euro e 33% oltre quella soglia), siamo lontanissimi dall’obiettivo. Ci sono ancora quattro aliquote (23%, 33%, 39% e 43%) anche se l’ultima è considerata un contributo temporaneo. Oggi Berlusconi si impegna ad eliminarla l’anno prossimo: comunque ne resteranno 3. Finora gli sgravi Ire sono stati di 12 miliardi (in due interventi di circa 6 miliardi ciascuno), mentre il costo complessivo della promessa del contratto varia tra i 22 e i 29 miliardi. Il premier ha già annunciato che è pronto ad un’altra manovra da 12 miliardi l’anno prossimo: ma a quale prezzo?
L’unico comma del primo articolo del contratto con gli italiani davvero rispettato è stata l’abolizione delle tasse di successione per i grandi capitali, costata un miliardo di euro. Per Ricolfi lo stato di realizzazione è tra il 44,8 e il 59,1%.
Diminuzione dei reati. Su questo punto il voto è ancora peggiore: non si è fatto praticamente nulla. Zero assoluto. Anzi, sotto zero, visto che i reati sono aumentati. Anche se l’autore del volume concede alcuni risultati positivi, come il crollo di mori per droga o la diminuzione di sbarchi di clandestini. Ma i reati come le truffe o i furti aumentano del 13% negli anni del centro-destra. Altro che giustizia e sicurezza.
Pensioni minime. «Si può discutere finché si vuole sul numero dei benficiari - scrive Ricolfi - ma non si possono avere molti dubbi che la promessa sia stata mantenuta». Anche se su una platea di 7 milioni di pensionati al minimo, hanno goduto dell’aumento solo 2,5 milioni.
Gli altri penseranno davvero che la promessa è stata mantenuta?
Nuovi posti di lavoro. Qui i giochi di prestigio raggiungono l’apice.
Berlusconi promette di dimezzare il tasso di disoccupazione. In realtà quel dato diminuisce, ma solo del 14,1% se si segue il nuovo metodo di calcolo, del 17,7 con il vecchio. Dunque, l’impegno è onorato al 35%, ma sarà difficile che venga centrato entro l’anno, passando da poco sotto il 10% al 5% promesso. Sugli effettivi nuovi posti di lavoro, il premier nei suoi manifesti formato maxi addiziona tutte le regolarizzazioni (635mila unità) avvenute anche grazie alla sanatoria per gli immigrati. Tutto sommato, comunque, non si superano le 991mila unità, a fronte di una promessa di 1 milione e 400mila.
Per Ricolfi «la realizzazione dell’impegno è sicuramente inferiore al 39,4%».
I cantieri. La solenne promessa fu di «avviare» il 40% delle opere previste nel piano decennale delle grandi opere. Quell’avviare è talmente vago, che è difficile misurarne la portata. Assumendo come unità di misura le risorse stanziate (le fonti variano da 9 a 25 miliardi), o la crescita occupazionale nelle costruzioni, l’obiettivo risulta realizzato tra il 7 e il 20% nel primo caso, e al 50% nel secondo.
Insufficiente anche questo.

Come il governo.

Lo slogan adesso è “discontinuità nella continuità” (creativi anche in quello).
Qualcuno – con più onestà – chiede un nuovo programma.
Ma non è come ammettere che quello precedente era sbagliato?
E allora questi quattro anni?

postato da carnesalli | 08:31 | commenti (10)
politica


giovedì, aprile 14, 2005
 

C.C. – Conti (fuori) Controllo e/o Caduta (di) Capelli
Tanto clamore su stampa e TV (a parte il TGU) per il probabile provvedimento disciplinare della Comunità Europea relativo ai conti pubblici italiani: qualcuno scopre ora con stupore che i conti sono fuori controllo.
Ma non si può dire che non ci avessero avvisato (oddio, qualcuno lo diceva da anni): ancora qualche giorno fa la Commissione europea ha rivisto al ribasso le stime economiche sull'Italia. L'incremento del Pil per il 2005 viene stimato dell'1,2% (dall'1,8% valutato in precedenza, per il 2005 e il 2006) e dell'1,7% l'anno successivo. Un aumento, ha sottolineato la Commissione , "al di sotto della media dell'eurozona". Inoltre "in assenza di misure addizionali", il rapporto deficit-pil dell'Italia salirà al 3,6% nel 2005 e al 4,6% nel 2006 sforando quindi in modo consistente il tetto del 3%. E questo perché la Commissione ha effettuato una valutazione "più prudente" di alcune misure incluse nella Finanziaria 2005, come le ulteriori spese e il taglio delle tasse. "Il finanziamento previsto di queste misure addizionali" giudica la Commissione , "è valutato insufficiente rispetto a quanto stimato ufficialmente".
Almunia aveva poi ribadito che "la situazione dell'Italia è molto difficile, con un tasso di crescita del Pil tra i più bassi e con un livello di debito pubblico tra i più elevati insieme con la Grecia ".
Quanto al debito pubblico italiano, nel 2005 secondo le stime Ue sarà al 105,6% del Pil, lievemente inferiore rispetto al 2004, 105,8%, ma potrebbe risalire al 106,3% nel 2006. "Il rapporto debito/pil nel 2005 è atteso scendere marginalmente - si legge nel documento Ue - e aumentare nel 2006, per ritornare ai livelli del 2003". Questa la ragione principale: in base alle indicazioni del programma di stabilità aggiornato del 2004, "gli introiti della privatizzazione a circa il 2% del Pil per anno si prevede vengano interamente compensate da un aumento del debito".

Insomma, il governo italiano avrebbe, secondo l’Ue, sbagliato i conti.
Secondo noi, e da tempo lo andiamo dicendo, li ha semplicemente “truccati” (e in effetti col cerone il nostro capo del governo ha una certa consuetudine).
Ma oltre all’avvio della procedura d’infrazione sui conti del governo e le precedenti analisi dell’Unione Europea, si possono ricordare gli allarmi dei sindacati, dei commercianti, dei partiti d’opposizione,  perfino di Montezemolo.
Ultime le critiche del Fondo Monetario Internazionale.
E infine il richiamo degli elettori.
Del resto ricordiamo tutti l’incontro all’Ecofin dello scorso anno, al quale Berlusconi fu costretto a partecipare per evitare il richiamo formale dell’Europa (il famoso early warning), alla fine del quale si impegnò (sulla sua parola d’onore: lassù stanno ancora ridendo): “ad accelerare la riduzione del debito pubblico, assicurare che il deficit resti sotto la soglia del 3%, garantire che ogni riduzione di tasse sia finanziato da risparmi equivalenti nella spesa pubblica”.
Il ministro Frattini, soddisfatto, commentò: “i conti dell’Italia sono in ordine. Lo aveva detto Tremonti e a Tremonti c’è da crederci” (Incredibile ma vero!, commenterebbe la Settimana enigmistica).
E subito dopo la partenza del pressing per introdurre la flessibilità nel patto di stabilità.E in seguito la mano tesa a Francia e Germania, “uniti” a noi nel deficit.Ma Francia e Germania prima o poi rientreranno dal loro deficit, lasciando i conti italiani nella perfetta solitudine. O meglio: in nostra compagnia, ahimè.
In sostanza: la fiction è finita.
Il grande bugiardo (a proposito Silvio, do you remember Nicola Calipari?)che prometteva tutto a tutti, casalingo con le casalinghe, operaio con gli operai, imprenditore con gli imprenditori ecc., ma che pensa solo agli affari suoi (e di pochi intimi), è chiuso in un angolo.
L’imbroglione che vendeva pozioni magiche sei metri per tre buone per qualsiasi problema (da mescolare solo con tre etti di ottimismo e un sorriso q.b.)  come quegli inventori cialtroni del far west, è finalmente nudo.
L’unica pozione che ha funzionato finora, infatti, è stata quella per i suoi capelli.
Scarsi anche quelli, in verità.

Postilla: deliri
"E per farmi sostituire da chi? Ci fosse un Croce, un De Gasperi o un Salvemini me ne andrei anche. Ma in panchina non c'è un Van Basten... Io sono miliardario: vi manderò una cartolina dalle Bahamas..."
(S.Belusconi, 14 aprile 2005) 
postato da carnesalli | 08:19 | commenti (14)
politica, pruriti


lunedì, aprile 11, 2005
 

C – Camminando entrambi fino ai confini
Una recentissima ricerca, commissionata dall’Unione delle Comunità ebraiche e condotta da Enzo Campelli, docente di Metodologia delle scienze sociali all’Università La Sapienza di Roma,  sulla diffusione dell’intolleranza fra i giovani italiani, ha rivelato – se ce ne fosse stato bisogno - che un italiano su 5, tra i 14 e i 18 anni, mostra atteggiamenti di evidente rifiuto verso le minoranze culturali.
Emergono pregiudizi e luoghi comuni: il 50% crede che gli extracomunitari aumentino la prostituzione o il terrorismo e addirittura il 20% crede che quanto si dice sulla shoah sia un’esagerazione.
Il dato che colpisce maggiormente è come le posizioni di ostilità siano ormai diffuse e trasversali fra ragazzi appartenenti a sfere sociali diverse; certo se può essere scontato che l’intolleranza sia percepibile maggiormente tra i ragazzi di destra, risulta assai sorprendente che i ragazzi religiosi siano quelli che mostrano la minore propensione all’accoglienza.
Cioè – e siamo alle solite – essi non vedono la religione come un terreno su cui dialogare, ma come uno steccato per affermare con forza la propria identità.
Ecco allora – credo - l’importanza della giusta informazione e formazione, della diffusione di pratiche di solidarietà e accoglienza.
E invece quel che siamo disposti a concedere è al massimo un rigidissimo contingentamento degli ingressi funzionale esclusivamente alle necessità della nostra economia, con una sorta di razzismo doppio: immigrati accettati non come fenomeno utile, ma con meri intenti utilitaristici ma privi di dignità vera e di vera accoglienza: il clima è appunto ostile, e così ad arte mantenuto. Occorre invece continuare (ed avere successo) nella lotta quotidiana al razzismo e all'intolleranza perchè si superino discriminazioni verso le minoranze, nel rispetto delle diversità, soprattutto in questi tempi di xenofobia e razzismo.
E’ difficile per noi, arroccati nella cittadella del nostro benessere (o bene-stare?), pronti a spendere una lacrima per chi muore di fame - purchè lo faccia a casa sua -, pronti a scandalizzarci per la fecondazione eterologa ma impassibili, o forse compiaciuti, per la clonazione mentale indotta dai mass media, a noi con la nostra finta accoglienza, da milanesi col "coeur in man" pronti a estrarre la rivoltella se qualcuno disturba il nostro tran tran quotidiano (si vanno accumulando rabbia e apprensione; sono sempre più coloro i quali ritengono di non potersi permettere il lusso della solidarietà).
Eppure dobbiamo sforzarci di promuovere una cultura di accoglienza, giustizia, solidarietà che ci richiami alle nostre responsabilità sociali per dare un'anima alla società, alla politica e all'economia.
La globalizzazione - causa prima di questi movimenti migratori - non e' altro che la versione rovesciata della solidarietà del genere umano: nessuno chiede più di contribuire ad una società solidaristica.
Anzi, ciascuno padrone a casa sua.
Oggi il  “punto di arrivo” e' una società individualistica e competitiva, fonte di ingiustizie e violenze, di emarginazione e discriminazioni, e invece occorre costruire in dialogo con tutte le forze sociali e politiche orientate al bene comune di una cultura dell'accoglienza, del rispetto, della condivisione  contro la politica degli insulti e degli atteggiamenti aggressivi ed offensivi verso i diversi come gli immigrati.
Il problema è semmai la perdita di senso, l'omologazione, non chi viene a pregare il suo dio; oppure consideriamo l'immigrato come manodopera senza diritti, senza nome, senza religione?
Ridare una dignità a chi ce la chiede è il primo modo per non perdere la nostra dignità, per riconoscerci uomini; senza confonderci, ma senza chiuderci.
La diversità porta con sè certo difficoltà, ma non possiamo risolvere il problema contrapponendo integralismo a integralismo.
Alziamo lo sguardo: legalità certo ma coniugata con la solidarietà.
Conoscere , valorizzare, accettare le differenze è invece condizione per dichiarare, verificare e perseguire l'eguaglianza.
Ognuno e' diverso da ciascun altro: questo ci rende uguali.
Uguali nella diversità. Differenti, dunque uguali, laddove è la congiunzione che va sottolineata, non la disgiunzione.
La pratica e i contenuti dell'educare e della politica vengono facilmente intesi come educazione alla normalità, vale a dire come addestramento a comportamenti e convinzioni a valori e stili di vita che rientrino nella norma.
Ciò che e' normale e' buono e giusto, ciò che è difforme va corretto, e ricondotto alla norma, oppure espulso, etichettato, emarginato.
La differenza viene avvertita come diversità, cioè come allontanamento e vissuta come un limite, se non una menomazione, o addirittura una minaccia.
Per valorizzare le differenze, prima di tutto e' necessario rompere il pregiudizio, ovvero il sistema che fa ritenere al senso comune la diversità un pericolo: e qui viene chiamata in causa direttamente l'informazione, che non e' mai neutra. Può produrre stereotipi e pregiudizi o romperli.
Si e' pienamente cittadini  nella misura in cui ci si impegna, si partecipa alla vita della comunità, ci si occupa e preoccupa, si pone attenzione agli altri: siano essi anziani, poveri, giovani, immigrati, carcerati, quale che sia la loro fede, religione, lingua, colore della pelle.
E non illudiamoci di allontanarli dalla coscienza allontanandoli dalla vista.
L'altro da sè, il rispetto e l'attenzione e la disponibilità soprattutto verso chi e' più debole, sono i valori e il tessuto su cui si costruisce la cittadinanza, il senso di appartenenza alla casa comune, alla comunità.
Non chiediamoci allarmati che fine farà il cristianesimo o addirittura la “civiltà occidentale”.
In fondo il cristianesimo fu fondato da un tizio mediorientale disoccupato e di carnagione scura, portato in Italia da un immigrato clandestino di nome Pietro ricercato da tutte le polizie dell'impero, anche lui scuro di carnagione, privo di lavoro e di fissa dimora. Trecento anni dopo la dottrina cristiana fu ammodernata da uno dei più grandi teologi di tutti i tempi, Agostino di Tagaste, nordafricano giunto a Milano con regolare permesso di soggiorno. Se non fosse per due palestinesi e un berbero, saremmo ancora qui ad adorare Giove e Minerva.
Il problema della legalità c'è, nessuno lo nega: è ovvio che dal momento che molti immigrati vivono in condizioni degradate sono più esposti alla delinquenza. Ma i problemi di sicurezza non sono problemi etnici.
Alcune reazioni sono istintive, non giustificabili ma comprensibili, certamente non nuove: "Sono fortemente contrario alla politica detta delle porte aperte. E' arrivato il momento in cui chiunque abbia a cuore il futuro della nazione deve preoccuparsi di questa poderosa ondata di immigrati. A meno di qualche seria iniziativa l'ondata avvelenerà le sorgenti stesse della nostra vita e del nostro progresso.Ospitiamo nelle nostre città più grandi un numero enorme di stranieri, tra i quali proliferano il crimine e le malattie".
Parole di oggi? No: risalgono al 1905. L'autore e' Franck P.Sargenti, commissario Usa all'immigrazione.
Gli stranieri di cui parla siamo noi.
E mi vengono in mente le parole che ha scritto Chiara (ve la ricordate?): “Ricordati che non sono i chilometri a fare la distanza” mi ha salutato un amico quando poi ho deciso che toccava a me fare la straniera e sono andata a vivere qualche mese all’estero. Non sono i chilometri perché puoi sentirti straniero anche nella tua terra, perché è parlare senza essere capiti, è mangiare senza gustare, è camminare senza mai arrivare a casa, è uscire chiudendoti a chiave, è diventare sorda. Ho scoperto che non posso amare un “chi” senza un “dove”. Esiste allora un incontro possibile? Sì, camminando entrambi fino ai confini.
A volta la storia si diverte a spostarli o a cambiarne il nome, ma esisterà sempre una frontiera dove arrivare, da una parte e dall’altra.”


martedì, aprile 05, 2005
 

11 a 2(oltre a Trentino, Val d'Aosta e Friuli nell'anticipo e Basilicata nel posticipo)Palla al centro (sinistra)

"Temiamo che in caso di vittoria dell'Unione si possano azioni contro l'alra parte: azioni non democratiche. Che possano scatenare giudici politicizzati o provvedimenti contro una classe sociale" (Berlusconi - 31.3.2005)

Lascio volentieri ai seguaci del pifferaio di Hammelin ("abbiamo perso perchè non ha partecipato alla campagna elettorale") - i "polli" per la libertà - l'onere, se credono, di mettere i sacchetti di sabbia alle finestre, in attesa di tartari che, come nel libro di Buzzati, stiano tranquilli, non arriveranno mai.

Io da parte mia - libero come il pensiero di un uomo libero, felice come chi ha trovato l'amore, leggero come il cervello di Gasparri - innanzitutto ringrazio i miei connazionali.

Eppoi, alla faccia della dieta, vado a prendere una sbronza epocale (tenete conto che sono anche interista...).
Dice A.Paoli "camminando s'apre cammino".

Appena sobrio, rimetto gli scarponcini...

postato da carnesalli | 08:33 | commenti (34)


lunedì, aprile 04, 2005
 

S – Il sogno spezzato…
(storie della mia storia)

Early Morning, April 4Shot rings out in the Menphis sky Free at last, they took your life They could not take your pride. (U2, Pride, 1984)
Il 4 aprile cui si riferisce la notissima Pride degli U2 è quello del 1968. La vita, quella del reverendo Martin Luther King.Un giorno qualsiasi,  per un uomo che qualsiasi non era.
I netturbini di Memphis, che da mesi chiedevano inutilmente al sindaco il riconoscimento dei loro diritti,  quella sera lo aspettavano per un comizio.
Giunse loro la notizia del suo assassinio.
Martin Luther King era nato ad Atlanta in Georgia  nel 1929, in un ambiente strettamente legato alla chiesa battista.Cresciuto in un ambiente fortemente razzista come poteva esserlo quello del sud degli Stati Uniti durante la grande depressione, si rese presto conto che la vita per un bambino nero era diversa da quella dei suoi coetanei bianchi.
I divieti segnarono la sua infanzia: proibito parlare coi bianchi, scuole separati, entrate separate nei negozi…
Una costrizione opprimente: a quattordici anni un viaggio in autobus con la sua insegnante lo segnò in modo indelebile: ”durante il viaggio – racconta – salirono sull’autobus alcuni passeggeri bianchi e l’autista bianco ci ordinò di alzarci e di cedere il posto a loro.. E siccome non ci alzavamo abbastanza in fretta, prese a insultarci bestemmiando… Restammo in piedi per tutti i centoquaranta chilometri di percorso che restavano prima di Atlanta…
Il sogno giovanile di divenire avvocato cedette il posto ad una spinta più profonda, maturata lentamente: abbracciare la religione.Ministro della Chiesa Battista, divenne presto famoso per le prediche con cui incitava i confratelli a combattere per i diritti civili, proponendo però un modello di lotta non violento, ispirato a Ghandi.
Ad un certo punto, la svolta.
Il 1° dicembre 1955 su un autobus di Montgomery, la sartina Rosa Parks rifiutò “con un atteggiamento calmo, sommesso e dignitoso”, scriverà poi, di lasciare libero il sedile su cui era seduta, riservato ai bianchi.Venne arrestata.Il reverendo  decise che era il momento di alzare la voce e accolse la proposta di boicottare i mezzi pubblici.
L’iniziativa ebbe un enorme successo: il 13 novembre 1956 le leggi che imponevano il regime segregazionista sugli autobus vennero dichiarate incostituzionali.Fu una vittoria enorme per King e per il movimento dei diritti civili.
Negli anni King fu oggetto di attentati dinamitardi, aggressioni, sassaiole, percosse, minacce, arresti.
Nell’estate del 1963 al termine della marcia per il lavoro e la libertà, fu capace di radunare a Washington davanti al monumento a Lincoln una folla mai vista: 250.000 persone.A quella folla consegnò il famoso discorso aperto dalle parole “I have a dream”: “ho un sogno, che un giorno questa nazione sorgerà e vivrà il significato vero del suo credo: noi riteniamo queste verità evidenti di per sé, che tutti gli uomini sono creati uguali”.
L’anno seguente ricevette il Nobel per la pace.
“Ebbene non so cosa accadrà d’ora in poi; ci aspettano giornate difficili. Ma davvero per me non ha importanza…Forse non ci arriverò assieme a voi. Ma stasera voglio che sappiate che noi come popolo, arriveremo alla terra promessa”.
Il 4 aprile 1968, il giorno dopo aver pronunciato queste parole, Martin Luther King rientrò stanco nella sua camera n. 306 del Lorraine Motel di Memphis. Doveva ancora scrivere il sermone per la domenica successiva e poi più tardi  lo aspettavano gli scioperanti  giù in città.
Dopo la cena si fece la barba, si annodò la cravatta e uscì a prendere un po’ d’aria suo balcone.
Chi lo aspettava fu freddo e preciso: la pallottola di grosso calibro lo raggiunse al mento, la morte fu praticamente istantanea.
Ma il suo sogno credo sia più vivo che mai.
Vorrei proporre di Martin Luther King non il solito discorso, che la gran parte conosce.§
Ma un altro.Meno conosciuto, ma che mi entusiasma:“…di tanto in tanto io penso alla mia morte e al mio funerale. Non ci penso in maniera morbosa. Di tanto in tanto mi domando: “ che cosa vorrei che dicessero?”E stamani lascio a voi la parola.Quel giorno mi piacerebbe  che si dicesse: Martin Luther King  ha cercato di dedicare la vita a servire gli altri.Quel giorno mi piacerebbe  che si dicesse: Martin Luther King ha cercato di amare qualcuno.Vorrei che diceste quel giorno, che ho cercato di essere giusto sulle questioni della guerra.Quel giorno vorrei che poteste dire che ho davvero cercato di dar da mangiare agli affamati.E vorrei che poteste dire, quel giorno, che nella mia vita ho davvero cercato di vestire gli ignudi.Vorrei che diceste, quel giorno, che ho davvero cercato nella mia vita, di visitare i carcerati.Vorrei che diceste che ho cercato di amare e servire l’umanità.Sì, se volete dire che sono stato una grancassa, dite che sono stato una grancassa per la giustizia. Dite che sono stato una grancassa per la pace. Sono stato una grancassa  per la rettitudine. E tutte le altre cose di superficie non conteranno. Non avrò denaro da lasciare dietro di me. Non avrò cose belle e lussuose della vita da lasciare dietro di me. Ma io voglio soltanto una vita impegnata da lasciarmi alle spalle. Ed è tutto quello che volevo dire.Se riesco ad aiutare qualcuno mentre passo, se riesco a rallegrare qualcuno con un parola o un canto, se riesco a mostrare a qualcuno che sta andando nella direzione sbagliata, allora non sarò vissuto invano.Se riesco a fare il mio dovere come dovrebbe un cristiano, se riesco a portare la salvezza a un mondo che è stato plasmato, se riesco a diffondere il messaggio come il Maestro ha insegnato, allora la mia vita non sarà stata invano”.
Il giorno dopo aver pronunciato queste parole verrà assassinato.
Tra mille anni, ma spero che qualcuno “quel giorno” possa dire le stesse cose di me.

postato da carnesalli | 12:39 | commenti (3)
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domenica, aprile 03, 2005
 

A proposito di un Papa che era soprattutto un uomo.“Una violenza che risponde ad un’altra violenza non è mai una via per uscire dalla crisi. Imploriamo il Signore perché non prevalga la spirale di odio e di violenza. Mai più guerra, mai più guerra, mai più guerra”
“Cari amici siete venuti qui per affermare che non accetterete di essere strumento di violenza e distruzione; che diffonderete la pace, pagando, se necessario, di persona. Voi non vi rassegnate a un mondo che quale altri uomini muoiono di fame, restano analfabeti o non trovano lavoro” Agosto 2000, ai giovani.

Dopo il sabba mediatico, l’ordalia di parole e immagini, spesso cinico e superficiale, che ha accompagnato l’agonia e la morte del Papa, non trovo giusto – forse nemmeno morale - spendere altre parole.
Ciascuno lo ricordi da morto per come l’aveva “conosciuto” e pensato da vivo.
Chi sa, preghi.
I tanti coccodrilli che piangono lacrime fatte di retorica e conformismo, gli agiografi per convenienza dell’ultima ora, vadano a rileggere le sue parole sulla mafia, sulla pace, sull’ingiustizia sociale, sul dialogo interreligioso…
Lettura che sarebbe utile anche a chi – come i farisei del Vangelo – saranno nei prossimi giorni seduti nelle prime file, a rubarsi la scena, a mostrarsi per lucrare un minuto di celebrità; sepolcri imbiancati, molto ben compresi nel ruolo esternamente, ma marci dentro.
Atei devoti, cattolici a gettone, prodighi di buone parole ma colmi di brutte azioni.
Che sfruttano ai loro fini il Papa della pace, loro che hanno fatto la guerra; il papa della giustizia, loro che creano ingiustizia; il Papa dell’amore e del dialogo loro che fomentano divisioni ed odii; il Papa della coerenza, loro che raccontano menzogne.

E’ morto un uomo.
Facciamo un po’ di silenzio.
Io, per me, mi siedo nella panca dell’ultima fila: quell’uomo aveva qualcosa da dire anche a me.
postato da carnesalli | 17:01 | commenti (7)
persone, omelie


venerdì, aprile 01, 2005
 

A – Africana per un giorno Il continente dimenticato/2
Dove finisce l’arcobaleno ci sarà un luogo fratello
dove il mondo potrà cantare qualsiasi canzone.
E noi canteremo insieme, fratello, tu ed io
benchè tu sia bianco e io no.
Sarà un triste canto fratello per cui conosciamo il motivo
Ed è un motivo difficile
da imparare
Ma noi possiamo impararlo fratello
tu ed io
Non esiste un motivo che sia nero.
Non esiste un motivo che sia bianco.
C’è soltanto musica, fratello.
E musica noi canteremo
dove finisce l’arcobaleno!
(R.Rive, poeta sudafricano)
Mille sono i volti dei bambini – abbiamo visto – che ci guardano da ogni parte del mondo, che ci osservano con la loro voglia di vivere e comunicare e di trovare spazio in un mondo sempre più attento alle esigenze di chi “consuma” senza badare a chi è “consumato” da fame e povertà, da guerre e mancanze di opportunità solo perché non conta nei giochi del mercato globale.
Ma solo chi è stato in Africa (o chi la conosce o frequenta persone che vi lavorano), può dire come veramente la donna abbia veramente, là, un suo ruolo importante (quasi mai onorato) di lavori e responsabilità.
Perché in Africa è lei che fin da piccola contribuisce a condurre la famiglia con una rigida divisione dei lavori, è lei protagonista attiva della vita del villaggio (un po’ come succedeva nelle nostre montagne quando gli uomini erano lontani e la vita della comunità era gestita dalle donne).
E sono questi volti di donne che ci trasmettono speranza e determinazione, che bene rappresentano il cammino che i paesi del sud del mondo sta conducendo verso uno sviluppo (certo lontano dai nostri modelli e criteri) che rappresenta una speranza.
Donne forti e lavoratrici, che stanno cambiando il volto del loro paese.
Donne che malgrado questo sforzo e il loro fondamentale contributo, spesso si trovano ad agire in condizioni di vita materiale molto disagiate, ad avere minori possibilità nel campo dell’istruzione e della partecipazione al mondo politico e sociale, che non vedono riconosciuto il fondamentale ruolo all’interno della società a causa di persistenti e radicate discriminazioni.
La povertà non è dunque determinabile esclusivamente in base al reddito, ma anche a disuguaglianze evidenti che tendono a non garantire i diritti fondamentali ad alcune categorie sociali.
Tra cui le donne, anch’esse “continente dimenticato”.
Da un rapporto Onu risulta infatti:
-         su 1,3 miliardi di poveri al mondo, il 70% sono donne;
-         tra i 900 milioni di persone analfabete vi sono più donne che uomini;
-         la partecipazione femminile alla forza lavoro è aumentata solo del 4% negli ultimi vent’anni anche se l’alfabetizzazione adulta e l’iscrizione scolastica delle donne si è elevata di 2/3;
-         il salario medio femminile è in media ¾ di quello maschile nel settore non agricolo; questo avviene in Bangladesh dove il salario delle donne è poco più del 40% di quello degli uomini, in Cina, Cile o Filippine (60%) ma anche in Canada (63%), Svizzera (67%) o negli Stati Uniti (75%). In Italia è l’80%;
-         in media il tasso di disoccupazione è più alto fra le donne che fra gli uomini;
-         le donne in media lavorano un numero maggiore di ore rispetto agli uomini ma solo 1/3 del lavoro delle donne è retribuito (mentre lo sono i ¾ del lavoro maschile). Le donne indiane lavorano 69 ore la settimana (gli uomini 59); le donne nepalesi 77 (gli uomini 56); nelle aree rurali del Kenya le donne svolgono il 35% di lavoro in più degli uomini. Tra i paesi industrializzati l’Italia è quello che registra il carico di lavoro più pesante per le donne;
-         le donne occupano solo il 10% dei seggi parlamentari e il 6% delle cariche governative;
-         in molte regioni del mondo la denutrizione colpisce di più le bambine dei bambini;
-         nella maggior parte dell’Asia orientale e dell’Africa settentrionale il diritto di nazionalità non è paritetico;
-         in paesi quali il Cile, Botswana, Leshoto, Namibia le donne sposate sono sotto la tutela del marito, non hanno diritto di amministrare proprietà;
-         i mariti possono negare alla moglie il permesso di lavorare fuori casa in Bolivia, Guatemala e Siria;
-         in Iran le donne non possono lasciare il paese senza il permesso del marito ;
-         circa un milioni di bambini ogni anno, soprattutto ragazze, sono costrette a prostituirsi;
-         cento milioni di ragazze ogni anno subiscono mutilazioni genitali.
Perché non provare a essere “africane per un giorno”?

Solo dopo essersi messi nei “panni di” (almeno per noi uomini occidentali) sarà forse possibile camminare al fianco di queste donne e di questi bambini, cosicchè la parola solidarietà assuma un significato di reale scambio di ricchezze e di comune cammino.
Sostenere un progetto di solidarietà alla luce di questa nuova esperienza potrebbe rappresentare una nuova una assunzione di responsabilità
Anche a casa nostra.
(P.S. Visto che domenica si DEVE votare, perché non votare donna?)

- questo post compare anche su cercandolibertà

  



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